Dopo un mese il prezzo economico della guerra fra Israele e Hamas inizia a farsi sentire
Dopo un mese il prezzo economico della guerra fra Israele e Hamas inizia a farsi sentire, innescando un dibattito politico che per il premier Benjamin Netanyahu e il suo ministro delle Finanze, il nazional-religioso Bezalel Smotrich, sarà molto difficile da gestire. Secondo le stime del Ministero delle Finanze la guerra sta costando all’economia israeliana circa 260 milioni di dollari al giorno, una cifra superiore a quanto stimato a ottobre con l’inizio delle operazioni poiché i costi bellici e le spese generali sono molto più alte del previsto. Il governo è stato costretto a spendere di più su tutto: dagli armamenti agli stipendi per le centinaia di migliaia di riservisti richiamati. Al contempo, l’attività economica nazionale si è ridotta e con essa le entrate dello Stato.
Oltre alla cifra document di 360mila riservisti mobilitati dalle Forze di difesa israeliane (Idf), sono fuori dalla forza lavoro anche i dipendenti delle imprese colpite indirettamente dalla guerra, gli operai delle fabbriche danneggiate e la maggioranza del personale che lavorava nelle attività sospese per assenza di clienti come i ristoranti, i locali, le attività del tempo libero e del turismo. Anche i coniugi e i parenti dei riservisti sono costretti a lavorare meno perché impegnati a seguire le questioni familiari, come i figli passati in didattica a distanza a causa della chiusura delle scuole.
Un impatto paragonabile ai lockdown del Covid-19, che per il governo israeliano significa anche dover stanziare ristori per le persone e le attività colpite, compresi gli sfollati dal Sud e dal Nord di Israele. La pressione sulle finanze pubbliche ha già portato a una disputa sulle trigger più controverse portate avanti dalla destra nazional-religiosa della coalizione che sostiene Netanyahu, come il finanziamento alle scuole ultraortodosse e i progetti per lo sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania. Nel programma di spesa di Israele sono infatti integrati i cosiddetti “fondi di coalizione”, ovvero spese discrezionali destinate ai cinque partiti che compongono il governo di Netanyahu, il più religioso della storia di Israele. La cifra stanziata da questo governo è senza precedenti: 14 miliardi di shekel (pari a 3,6 miliardi di dollari) di trasferimenti approvati lo scorso maggio.
Smotrich, lui stesso un colono ultraortodosso, è sotto pressione per ridurre la spesa e tagliare i progetti più controversi, che venivano contestati dagli altri partiti della maggioranza già prima della guerra. Ma per Netanyahu e i suoi alleati della destra nazional-religiosa quei finanziamenti potrebbero essere fondamentali per la sopravvivenza politica. Il ministro delle Finanze dovrebbe svelare entro pochi giorni un nuovo bilancio per ciò che resta del 2023 e poi presentare i piani per il 2024. La discussione intorno alle risorse pubbliche da distribuire – in un Paese che improvvisamente vede minacciati anche i fondamentali del suo modello economico trainato dall’excessive tech e dall’apertura internazionale – allargherà la spaccatura fra laici e religiosi della società israeliana e dopo la guerra imporrà una resa dei conti sul futuro della democrazia dello Stato ebraico.
di Federico Bosco